Intervista ad Antonio Silva: «Vedo un cambio di mentalità, è il momento buono per buttare carne sul fuoco»
Il finale di stagione è il momento ideale per tirare le fila del lavoro svolto, dando un’occhiata ai progetti futuri, alla stagione alle porte e alla preparazione invernale.
Scambiamo quindi due parole con Antonio Silva, direttore tecnico del settore abilità – che comprende downhill, four-cross, BMX e trial – della Nazionale italiana di mountain bike, per tentare di disegnare un ipotetico bilancio di fine anno. Silva, oltre a ricoprire un ruolo che lo mette a contatto con tutti i più forti atleti in Italia e nel mondo, fa trasparire la passione che lo ha portato ad abbandonare tutto per mettersi a disposizione della Federazione e dei suoi atleti al cento per cento.
La scadenza del quadriennio olimpico e degli incarichi federali è alle porte: «I programmi per il prossimo anno li ho stilati e presentati in FCI – commenta Silva – bisogna però vedere se verranno approvati in consiglio, e soprattutto se toccherà a me portarli avanti».
Cerchiamo di valutare i risultati degli italiani a livello internazionale: nel complesso, valuti positivamente la stagione?
Siamo partiti con l’intenzione di lavorare sui giovani, soprattutto a livello internazionale, perché è risaputo che i team – tantopiù quelli italiani – puntano maggiormente sugli élite, perché sono quelli che possono garantire un migliore risultato. A fine stagione si è aperta la squadra nazionale ad alcuni élite, per permettere loro di effettuare alcune trasferte costose, mettendo così a frutto l’impegno di una stagione.
Se andiamo a vedere i risultati dei singoli atleti, abbiamo avuto una flessione in coppa del mondo rispetto allo scorso anno, in buona parte dettato dal fatto che il livello medio degli atleti della world cup si è alzato. I fattori principali sono due: l’ingresso di tanti buoni atleti che non frequentavano normalmente la coppa e l’innalzamento del livello dei top rider, che è cresciuto e si è livellato verso l’alto. Proprio per questo, Sam Hill non ha più spadroneggiato e ha avuto avversari più che validi. Tutto questo non finisce di stupire, perché anno dopo anno vanno tutti sempre più forte: bisogna capire quale sarà il livello limite.
Discorso differente per il mondiale e l’europeo. Noi italiani non abbiamo potuto giocare realmente in casa, perché i tracciati di Commezzadura e Caspoggio hanno aperto una sola settimana prima dei due eventi; all’estero, quando hanno occasioni simili, preparano le gare con molto anticipo. Nonostante questo, i risultati ci sono stati: Marco Milivinti ha fatto un risultato eccezionale in entrambe le gare, Alan Beggin, nonostante non sia pienamente soddisfatto, ha migliorato i piazzamenti iridati degli ultimi anni.
A livello generale, ho notato una maturazione, di testa e di intenti, da parte degli atleti che fino a pochi anni fa non c’era: gli élite erano molto simili agli amatori, mentre attualmente la differenza non la fa soltanto il tesserino, ma l’impegno e la professionalità.
All’inizio degli anni ’90, l’Italia era tra i Paesi da battere nelle discipline veloci. Oggi come allora, il settore ciclistico italiano, in tutte le altre discipline, è il top a livello internazionale. Quali sono le motivazioni di questa ormai cronica mancanza di risultati?
Dopo il periodo d’oro, la discesa in Italia è diventata un fatto prettamente amatoriale.
Bisogna premettere che la discesa di 12 o 15 anni fa non è la stessa di oggi: attualmente è molto più fisica, e soprattutto più tecnica. E’ quasi un altro sport.
Poi c’è da dire che i grossi campioni degli anni ’90 venivano da altri sport: Corrado Hérin dallo slittino, Paolo Caramellino dal motocross, Giovanna Bonazzi sciava. Probabilmente c’è stata una convergenza verso il nostro sport di atleti da altre discipline “pseudo-estreme”. Proprio al momento giusto: c’era un alone di entusiasmo perché gli sponsor rispondevano, c’è stato un grandissimo team come Sintesi che si muoveva con mezzi incredibili. Tutto ciò ha creato un clima positivo che ha permesso di far nascere determinati campioni. Negli anni seguenti, all’estero hanno progredito, mentre il nostro movimento si è seduto sugli allori. Anche quando correvo io, si è sempre voluto tutelare il numero complessivo e non il livello degli atleti. Adesso recuperare terreno è dura, anche perché gli altri continuano a correre.
Come si possono migliorare i percorsi in Italia?
Abbiamo iniziato a migliorare i percorsi italiani da un paio di anni, o almeno a cercare di farlo, con l’aiuto di qualche organizzatore collaborativo. Ci siamo resi conto di aver cambiato veramente qualcosa quando sono partite le critiche degli amatori: è stato sufficiente incrementare, nemmeno di tanto, la tecnicità dei percorsi, per far sì che subito si sia sollevato un coro di reclami da parte dei tanti che hanno un livello tecnico medio-basso. Abbiamo tentato di mediare la cosa con le varianti, ma anche questa novità è stata accolta in modo poco positivo, perché l’amatore vuole confrontarsi sulla stessa pista dell’agonista: ma non posso abbassare il livello di una pista che deve aiutare Beggin e Milivinti a crescere per favorire un amatore che fa due gare all’anno.
Lo zoccolo duro della discesa italiana erano e sono tutt’ora gli amatori, ma sembra che esistano solo loro. Il nostro è uno sport tecnico. Se vogliamo crescere, per forza dobbiamo rendere più tecnici i nostri percorsi, non certo riservandoli ai migliori, ma con il criterio della progressività e delle varianti sui percorsi e con un meccanismo di selezione nelle gare regionali per accedere a quelle nazionali, su percorsi selettivi e di livello internazionale.
Si alza il livello in Italia portando gli stranieri qui o andando a correre all’estero?
Entrambe le soluzioni sono valide: portando gli stranieri in Italia si fa crescere l’immagine della discesa italiana, per alzare il livello tecnico occorre andare a correre all’estero, dove il livello medio è più alto e il confronto viene fatto con atleti più forti. Sono due cose che aiutano, in un senso e nell’altro.
A livello generale, cosa dovrebbe fare il downhill per diventare uno sport “di primo pelo”?
E’ fondamentale trovare i modi e le strade per pubblicizzarlo e farlo conoscere il più possibile. La spettacolarità c’è: tutte le volte che il downhill è riuscito ad uscire allo scoperto, la gente lo ha apprezzato. Ricordo, quest’anno in Val di Sole, i commenti di Alessandro Fabretti e Davide Cassani, che hanno seguito la telecronaca dell’evento, e si dicevano stupiti del numero eccezionale di messaggi e di email ricevuti dopo il passaggio dell’evento sportivo in televisione: quando c’è un riscontro così ampio, significa che c’è molta gente che non solo lo ha seguito, ma si è fermata per guardarlo e lo ha apprezzato. Anche Fabretti ha riconosciuto che il downhill è quel tipo di disciplina che, se ci capiti per caso, ti fermi a guardarla fino alla fine, perché “acchiappa”.
Bisogna creare più occasioni di passaggio, ma purtroppo è costoso per uno sport che non è ritenuto tra quelli degni di fare audience. Trovare il modo per uscire più frequentemente in tv può portare a cambiamenti radicali.
In particolare in Italia, bisogna crearsi un’immagine: l’ambiente è ancora troppo amatoriale, da sagra di paese, le gare non hanno colore, gli organizzatori devono curare anche la “facciata”, e gli atleti la propria serietà, per avere tutte le carte in regola per crescere.
Nel caso dell’esordio della BMX alle Olimpiadi, si è notato un accanimento verso questo sport da parte di molti giornalisti sportivi italiani, mentre gli stranieri si sono dimostrati più interessati e “tolleranti”. Come valuti questo comportamento?
Purtroppo, in Italia il ciclismo è quello su strada: su asfalto o al massimo sul parquet dei velodromi.
A me fa piacere che i giornalisti tradizionali si siano schierati contro il BMX, perché vuol dire che si sono resi conto che il BMX può diventare pericoloso e cambiare il ciclismo. E’ una situazione che stiamo vivendo su diversi fronti, non solo su quello della stampa: prima non ci considerava nessuno, adesso si preoccupano di sminuire i nostri movimenti, il movimento del BMX, del downhill, del trial, che stanno avendo uno sviluppo enorme. Sono tutte discipline che sono state sotto le braci, è il momento buono di buttare qualcosa sul fuoco: è ora.
Dopo aver parlato di BMX, è inevitabile passare al four-cross…
E’ un altro grossissimo problema italiano, perché non essendoci impianti, non c’è movimento. Qualche BMXer ha messo timidamente il naso nella disciplina, ma si è subito reso conto che non è BMX, e molti sono rimasti scottati. Ci sono sì i salti e le curve paraboliche, ma c’è un fondo irregolare, ci sono curve senza sponda, contropendenze e ostacoli naturali come rocce e tronchi: anche il 4X ha subito molti cambiamenti negli ultimi anni.
Venendo alla Nazionale, abbiamo recuperato Livio Zampieri: ha un carattere incredibile, una volontà che non è d’acciaio, ma di più, è impressionante. E’ già tornato a lavorare sodo, anche in BMX. Resterà una carta importante per la prossima stagione, da affiancare a qualche giovane che quest’anno a Rossana, al campionato italiano, ha debuttato nel four-cross, e non gli è affatto dispiaciuto.
Parliamo quindi di giovani: fai qualche nome che ritieni promettente.
Qualche carattere interessante c’è: è uscito quest’anno dagli junior un gruppetto di atleti che, pur avendo bisogno di lavorare ancora tanto per essere competivo a livello internazionale, può arrivare a buoni risultati in breve tempo.
C’è un po’ di vuoto tra gli junior e gli allievi del prossimo anno, mancherà il ricambio naturale. Rimarrà junior Andrea Gamenara, che è un personaggio molto valido: è un ragazzone, ma se trova convinzione in ciò che fa ha certamente buoni numeri; arriverà in questa categoria Pietro Caire, giovane in costante crescita. Tra i neo under 23 troviamo Edoardo Franco, in regolare e progressivo miglioramento; vorrei vedere anche Davide Don dopo una stagione di lavoro, perché ha praticamente appena iniziato a correre: ha dalla sua un fisico che, se lavorato e costruito, può diventare eccezionale. Marco Bugnone è passato quest’anno a confrontarsi con gli élite, e si è dimostrato subito competitivo a livello nazionale: può diventarlo anche all’estero, il suo obiettivo non può non essere quello di entrare tra i primi dieci.
Poi c’è un buon gruppo negli esordienti, Francesco Colombo, Gianluca Vernassa, Carlo Caire… Dobbiamo sperare nel futuro.
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